DRIVE THE ALPS
Alle volte succede che una storia che non avresti mai pensato di scrivere trasformi quella che sarebbe dovuta essere una giornata come tante in qualcosa che non ti si scrollerà mai più di dosso.
Testo Alessandro Marrone / Foto Jay Tomei
Ore 6:15. Questa non è una mattina come tante. La sveglia irrompe nel silenzio della camera da letto e mentre comincio ad aprire gli occhi con estrema pigrizia, nella mia mente si delinea subito l’immagine della montagna che mi attende. È il 9 novembre e sembra che l’autunno abbia ridotto la sua permanenza con noi, cedendo spazio ad un inverno che si promette lungo e freddo. Per parecchi mesi non si potrà più conquistare le vette dei monti, figuriamoci quelle strade meno battute come quella del Colle Fauniera che prosegue verso ovest in direzione di Rocca La Meja, la destinazione principale del mio viaggio verso le cosiddette Dolomiti piemontesi.
Proprio così, grazie non solo alla loro conformazione ma proprio per il tipo di rocce dolomie alternate a calcari, quelle di Rocca La Meja sono davvero identiche a quelle delle Dolomiti. Essendo però meno inflazionate e ancor più selvagge rappresentano la meta ideale per scrivere il capitolo conclusivo di una stagione che ci ha visto percorrere ancora una volta un’infinità di strade mozzafiato, a prescindere che fossero provviste di asfalto, oppure grezza ghiaia. Proprio quest’ultime, nel corso degli ultimi tempi hanno rapidamente cominciato a suscitare un particolare amore dentro me. Probabilmente per il fatto che consentano, perlomeno percorrendole nelle giornate meno affollate dell’anno, di instaurare un rapporto più intimo con la montagna e con il paesaggio intorno, ma anche perché grazie ad un off-road o anche a un più confortevole e raffinato SUV è possibile abbandonare la strada o il sentiero principale e raggiungere il cuore di un luogo completamente incontaminato e capace di farti sentire in un altro mondo, dove ogni rumore, ogni odore e ogni cosa si pari davanti allo sguardo ha un qualcosa di inspiegabile a parole.
Ore 8:30. Siamo ormai in marcia da un’oretta e dopo aver fatto il pieno di benzina, noto con piacere che le dimensioni e il peso della Ford Explorer non rappresentino affatto un problema in termini di percorrenza. Quello che per gli americani è infatti un SUV di taglia media perfettamente adatto alle famiglie, da noi nel vecchio continente è più visto come un vero e proprio gigante della strada, meglio se tenuto alla larga dai centri urbani. Ma l’Explorer, nonostante i suoi 508 centimetri di lunghezza e una larghezza che con specchietti retrovisori aperti supera i 2 metri, si dimostra piuttosto a suo agio anche nelle manovre più impensabili. Questo senza dubbio grazie alle videocamere con visuale anche sulle zone laterali del veicolo, in modo da consentire un parcheggio anche dove non lo credevate possibile. Anche il motore è taglia XL, si tratta di un 3-litri V6 abbinato a un propulsore elettrico con sistema Plug-In Hybrid, che con batterie cariche arriva a erogare la bellezza di 457 cavalli. E poi c’è la coppia, un’infinita coppia massima di 825 Nm. Ho detto 825, più di un’Audi RS6! Non so se rendo l’idea.
Il tutto si traduce in un gigantesco appartamento a 7 posti che si muove estremamente rapido e accorcia le distanze avvalendosi anche di un comfort di bordo eccezionale. Troviamo infatti un allestimento full optional che in perfetto stile americano prevede comode poltrone in pelle riscaldate, raffrescate e con le varie modalità di massaggio. Anche il volante è riscaldato, mentre fatta eccezione dei pulsanti per il controllo del clima e dell’impianto audio, l’infotainment è controllabile tramite un display touch da 12,3 pollici molto funzionale, pratico e preciso, stavolta posizionato in verticale e che soltanto in alcune situazioni avrei preferito in posizione tradizionale e quindi orizzontale. Inutile dire che ci sia spazio in abbondanza, soprattutto per gli occupanti posteriori e per i bagagli, mentre i due sedili extra sono ricavati nella prima porzione di vano di carico, si abbattono elettronicamente e riducono la capacità del baule, senza però azzerarla. C’è anche un doppiofondo nel quale per esempio sistemare i cavi per la ricarica.
Uno dei tanti aspetti positivi dell’Explorer è il cambio, che grazie a 10 rapporti riesce a gestire in perfetta autonomia i giri motore utili per muovere la vettura in souplesse e senza per questo consumare troppa benzina. Al tempo stesso, con un affondo deciso sull’acceleratore o magari sfruttando una delle numerose modalità di guida disponibili – in questo caso Sport – il motore termico e quello elettrico lavoreranno in simbiosi, muovendo l’Explorer a velocità sostenute. Certo non stiamo parlando di un SUV spiccatamente prestazionale e non solo per via di un peso di 2.541 kg, ma piuttosto per un assetto che rimane tuttavia morbido e di uno sterzo che sebbene non sia demoltiplicato come quello di un pick-up, richiede un maggiore movimento rispetto a quello di un SUV tradizionale. Alla guida, escluso l’ambito autostradale, occorre prendere bene le misure per entrare in sintonia con la larghezza e la lunghezza dell’Explorer, ma dopo qualche chilometro ci si rende conto che guidarlo anche in ambito quotidiano non è assolutamente una cosa impossibile. Per quanto riguarda il discorso elettrificazione, la vettura in questione non lascia nulla al caso e infatti oltre ad offrire una percorrenza massima con il propulsore termico spento di addirittura 40 km, prevede ben 4 modalità che consentono per esempio di guidare solo in elettrico, mantenere una riserva di energia magari utile per manovrare nel box a casa o accedere a qualche zona interdetta al traffico, o per esempio favorendo il recupero di energia.
Ore 9:30. Usciti finalmente dall’autostrada e superato Cuneo, gli occhi volgono verso l’alto, dove sotto una fitta coltre di nubi sembra intravedersi un timido sole. Proseguiamo in direzione Vinadio e una volta arrivati a Demonte, effettuiamo un ultimo controllo circa il carburante e il meteo che dovremmo trovare da lì a circa 30 km, in direzione del Colle Fauniera. Ho rinviato il nostro road trip qui per svariati motivi e adesso, con la brutta stagione ormai alle porte, questa potrebbe essere l’ultima occasione per raggiungere Gias Bandia e Rocca La Meja. La storia del luogo è toccante e avendo parlato con esperti della zona abbiamo scoperto i drammatici accadimenti che hanno reso l’area una zona di morte durante la seconda guerra mondiale, come ricordato appunto nei pressi di Gias Bandia, dalle pietre che ricordano la crudele uccisione di due giovani pastori, creduti partigiani dalle truppe naziste che stavano rastrellando l’area, per non parlare della più grande strage di militari in tempo di pace che è costata la vita a 23 giovani alpini nell’indimenticabile febbraio del 1937.
Imbocchiamo così la strada del Vallone dell’Arma e la carreggiata comincia a farsi più stretta. Senza nemmeno rendercene conto notiamo che molti greggi e gruppi di bestiame sono già stati spostati a valle, ma sia le previsioni meteo che un costante sguardo al cielo dal tetto panoramico della nostra Ford ci convincono che sia sicuro proseguire. Qualche chilometro dopo, l’assenza di qualsiasi segnale o delimitazione che possa indicare una possibile chiusura della strada ci convincono che tutto stia procedendo per il verso giusto. Starà a noi valutare, in caso di precipitazioni, quando svoltare e fare marcia indietro in completa sicurezza. La strada prosegue pulita e asciutta, ma quando superiamo San Giacomo inizia il vero spettacolo imposto ai nostri occhi da una natura incontaminata che corre selvaggia fino a quota 2.831 metri.
Di fronte a noi si disegna improvvisamente un panorama di rara bellezza. La valle completamente assalita dai colori dell’autunno sembra prostrarsi ai piedi delle montagne rocciose che a perdita d’occhio guidano lo sguardo verso un orizzonte reso indistinguibile da un sottile velo di nebbia. Puntando le cime più alte riesco a scorgere l’intensità del forte vento che muove le nuvole in maniera talmente violenta che da un secondo all’altro sembra di trovarsi di fronte ad un fondale sempre differente. Quello che non cambia è lo stupore disegnato sui nostri volti e per questo motivo siamo costretti a qualche sosta non preventivata, così da consentire a Jay di scattare le prime foto della nostra salita verso la tanto sospirata Rocca. Non c’è anima viva intorno a noi, gli animali ormai lontani dai loro pascoli estivi e la fauna selvatica quasi completamente in letargo al riparo da temperature che si stabilizzano ben presto ad 1 solo grado sopra lo zero. Fortuna che abbiamo messo qualche vestito più pesante del solito e ovviamente guanti e berretto, ma l’abitacolo dell’Explorer è il luogo sicuro nel quale vuoi trovarti, soprattutto quando puoi regolare la temperatura desiderata in qualsiasi porzione dell’abitacolo e proseguire l’arrampicata con sedile e volante riscaldati a dovere.
Dopo qualche chilometro raggiungiamo il Rifugio Carbonetto, ovviamente chiuso e senza le pecore ad affollare i prati circostanti. Do un breve sguardo alla struttura in pietra alla nostra sinistra e già immagino come avremmo potuto sistemare la vettura per qualche scatto. Osservo però anche il cielo davanti a noi e preferisco continuare e sfruttare il più possibile quelle che reputo essere poche, anzi pochissime ore di meteo ancora favorevole, lasciando eventualmente questa location per il ritorno. Anziché schiarirsi, il cielo sembra ormai destinato a rannuvolarsi sempre più, con una leggera pioggerellina che inizia a bagnare il parabrezza della Explorer e noi che non perdiamo l’occasione di qualche scatto lungo un rettilineo che sembra finire nel cuore della montagna che si erge dinnanzi a noi. Tutto sembra perfetto, non c’è anima viva e possiamo quindi percorrere la strada in completa tranquillità senza preoccuparci di traffico proveniente dal lato opposto, aspetto che comporterebbe diverse manovre dato che la carreggiata è molto stretta e con pochissime aree utili per un’eventuale manovra.
Quel che non manca è la visibilità, la totale assenza di alberi e quella distesa dai tipici toni autunnali che sembra ancora nascosta dalla brina di una notte con escursioni termiche di molto sotto lo zero. Osservo ogni piccolo particolare, le rocce, i paletti di delimitazione laterali e quelle vette con cime bianche che sembrano voler avvolgere tutti quei giganteschi cunei di roccia che delimitano un’enorme conca naturale che ci stringe nel suo abbraccio primordiale. Oltrepassiamo un piccolo capanno in lamiera probabilmente utilizzato dai pastori durante la bella stagione e dopo una manciata di chilometri, un sottile velo di neve comincia a invadere la strada. Sposto immediatamente il rotore delle modalità di guida su “Bassa aderenza” e l’Explorer si avvale in maniera ottimale della trazione integrale, cercando di limitare lo slittamento delle ruote e oltrepassando senza alcun problema quei pochi metri di delicato manto bianco.
Ore 10:15. Dopo un tornante, il panorama ci prende ancora una volta alla sprovvista e con un tratto rettilineo con un maggiore accenno di neve, reputiamo che sia di nuovo il momento ideale per una fotografia. Io e Jay scendiamo dall’auto, spegnendo il motore e azionando il freno di stazionamento. Giorgia resta a bordo, seduta sul sedile del passeggero e tenendo sotto controllo un segnale telefonico che da ormai qualche chilometro ha abbandonato ogni segno di vita. Con lo sguardo perso nella più totale ammirazione del paesaggio e con il fotografo che si appresta scattare una foto, vedo che improvvisamente l’auto inizia a scivolare indietro. Giorgia grida e senza nemmeno rendermene conto inizio a correre verso la vettura. In quel momento, in quei secondi frenetici e drammatici di totale impotenza e paura, Giorgia riesce ad aprire la portiera e buttarsi giù dall’auto. Nel frattempo riesco ad appendermi alla maniglia e con un movimento mosso dalla disperazione salto a bordo e premo il pedale del freno, sterzando in maniera da mettere una ruota a bordo strada e fermare così la corsa dell’auto verso il precipizio.
Non saprei descrivere meglio quel momento per il semplice fatto che è come se avessi un vuoto di memoria. È come se dalla corsa verso l’auto e il recupero tutto fosse avvenuto in meno che una frazione di secondo. Con le mani che tremavano per il disastro sfiorato decidiamo di svoltare immediatamente e tornare indietro, ma nel frattempo la nevicata si intensifica e dobbiamo fare in fretta. Non posso scendere dall’auto, non adesso che abbiamo visto come le coperture non facciano presa sul fondo stradale e soprattutto non dopo aver evitato il peggio con una rocambolesca fortuna che non intendo sfidare. Jay e Giorgia cominciano così a camminare verso nord, nella speranza che poco più avanti ci sia un punto abbastanza largo e meno esposto al precipizio che permetta un’inversione di marcia. In fondo a questo tratto c’è una leggera curva verso sinistra, poi subito un tornante e la situazione oltre sembra impossibile da affrontare. Muovo lentamente l’Explorer in avanti. Le gambe tremano, ma finalmente la vettura comincia a spostarsi e allontanarsi quindi dal salto nel vuoto a pochi centimetri dietro di me.
La visibilità peggiora ogni minuto che passa e so che dobbiamo cercare alla svelta di invertire il senso di marcia e provare con la massima cautela a superare il tratto che ha trasformato una giornata immersi in un paradiso di roccia incontaminata in un orrendo incubo bianco. Raggiungo il punto indicatomi, ma nel momento in cui devo controsterzare per manovrare in retromarcia l’auto scivola ancora, questa volta verso sinistra, dove a pochi metri c’è un salto di chissà quanti metri. L’agitazione comincia a prendere il sopravvento, ma cercando in tutti i modi di agire lucidamente procuriamo qualche pietra e sradichiamo alcuni paletti di legno posti a bordo strada, in maniera da puntellare le ruote e cercare in tutti i modi di impedire che continui a scivolare verso il basso. Le conseguenze sarebbero drammatiche. Salgo nuovamente a bordo e con le mani irrigidite dal freddo per aver cercato di tirar via la neve depositata attorno alle ruote, impugno il volante e cerco di divincolarmi. La vettura non si muove, le ruote girano a vuoto. Siamo bloccati.
È in questo preciso istante che ti rendi conto che certe cose non accadono soltanto nei film. Siamo nel mezzo di una bufera, a -4° e con l’auto che non solo è bloccata dalla neve, ma rischia pericolosamente di riprendere a scivolare sul ghiaccio sottostante senza alcuna possibilità di controllo. Prendiamo in mano i cellulari ma nessuno ha segnale, così tentiamo ancora una volta di muovere qualche centimetro sistemando altri paletti di legno sotto alle ruote. Ancora una volta il nostro tentativo è infruttuoso e così ci adoperiamo per migliorare il blocco, perlomeno da evitare che l’auto possa muoversi nella direzione sbagliata. Non c’è tempo da perdere, prendo ombrello e walkie-talkie e comincio a camminare nella direzione da dove siamo venuti, continuando a tentare una chiamata di soccorso al 112, che però non funziona. Provo anche a chiedere aiuto utilizzando tutti i canali della radiolina, nella speranza di intercettare qualcuno, ma nulla. La strada è adesso coperta di neve e la bufera sembra aumentare di intensità con il passare dei minuti, infatti nel momento in cui mi volto per guardare l’auto in panne, stento a distinguere i gesti dei miei compagni che cercano nel baule qualsiasi cosa potesse essere d’aiuto.
Decido di tornare alla macchina e nel frattempo noto delle impronte che prima non c’erano. Il perché è molto semplice e dato che ci sono soltanto quelle dei miei piedi e non quelle degli pneumatici dell’auto, significa che qualcosa è passato a pochi metri da noi, più precisamente tra me e l’auto. Ad aggiungere panico alla già concitata situazione, l’assoluta solitudine che tanto amiamo quando la montagna è serena e si lascia conquistare. Sì, perché è lei che decide di darti il permesso. E quando non ti è concesso, è meglio non sfidare madre natura. Raggiunta la vettura metto in guardia Jay e Giorgia di guardarsi costantemente attorno, ma purtroppo non possiamo risolvere nulla da quella posizione. Dobbiamo assolutamente muoverci e trovare un punto in cui ci sia segnale telefonico per chiamare i soccorsi.
Prendiamo l’unico ombrello, indossiamo guanti e berretto e ci incamminiamo. Da qui a valle sono 25 chilometri e soltanto dopo ho verificato che per percorrerli a piedi sarebbero occorse più di 6 ore, ovviamente in condizioni meteo normali. Non che avessimo intenzione o speranza di poter affrontare un’impresa simile, ma mentre proseguiamo la discesa con la speranza che l’auto resti ferma dov’è, l’assenza di segnale telefonico inizia a trasformarsi in una bruttissima sensazione che attanaglia lo stomaco ogni volta che svoltiamo una curva cieca. Sappiamo che più a valle c’è quel rifugio e che seppure vuoto avrebbe potuto rappresentare un luogo sicuro nel quale ripararsi e continuare a cercare aiuto. “Se qualcuno mi sente abbiamo seriamente bisogno di aiuto. Rispondete per favore” – mai avrei pensato di trovarmi in una situazione simile. Mai avrei creduto di camminare nella bufera guardandomi le spalle per la presenza di lupi. Eppure sono proprio queste le situazioni che nella loro drammaticità riescono a tirare fuori il meglio di te. Mi sento responsabile, anche se non credo che la colpa sia soltanto mia. Non si è trattato di negligenza, ho controllato tutto il possibile e stavamo davvero per tornare indietro e rinunciare alla conquista della vetta, ma purtroppo la sfortuna e il fato avevano altri piani. E meno male che dicevano che quello del giornalista fosse un lavoro noioso.
Ore 11:30. Non è tanto il freddo, neppure il forte vento o la fatica di affondare un passo dopo l’altro in un pavimento di neve che si fa sempre più spesso. È quel surreale silenzio, quella mancanza di punti di riferimento ormai sepolti da quel morbido e infame manto bianco a confonderti le idee. In quel momento le pensi tutte, ma dispersi in quell’angosciante nulla ogni idea è irrealizzabile. Finalmente intravedo quel capanno in lamiera superato in precedenza e non appena noto che non è chiuso da una catena, apro la porta e troviamo un provvidenziale riparo. Non c’è più strada, non ci sono più prati, ormai è tutto un bianco indistinto. Usciamo per un attimo ed ecco che una debole linea di segnale ci permette di inoltrare la prima chiamata ai soccorsi. Risponde subito l’operatore e prontamente fornisco la posizione (il più precisamente possibile) e il tipo di richiesta: abbiamo bisogno di un recupero il più in fretta possibile.
Ci viene detto che una pattuglia dei Carabinieri e un mezzo dei Vigili del Fuoco partiranno a breve, così rientriamo nella baracca, anche se in quel riparo di fortuna i telefoni sono inutili e non potendo essere ricontattati, siamo costretti a uscire e percorrere metri nella neve per farci aggiornare sullo stato dell’operazione di recupero. L’attesa è frustrante e con il passare dei minuti la nevicata si intensifica a tal punto da costringere una delle due 4×4 a fermarsi, in modo da evitare di restare bloccata anch’essa. Ovviamente noi non sappiamo nulla e così tentiamo altre telefonate, facendoci rassicurare che da lì a poco i soccorsi sarebbero in qualche modo arrivati per prelevarci e metterci in salvo. Trascorre una mezz’ora, un’ora, un’altra mezz’ora e guardando l’orologio comincio a immaginare gli scenari peggiori. Ci raccomandiamo l’un l’altro di muovere mani e piedi, così da scongiurare possibili congelamenti e ad un tratto decido di lasciare il capanno e camminare in direzione delle pattuglie.
Sfortunatamente la nevicata è troppo fitta e mi costringe a tornare indietro dopo aver percorso appena un paio di chilometri. Una volta al riparo non possiamo fare altro che aspettare. Le ore trascorrono inesorabilmente e la paura che arrivi il buio ci spinge a tornare verso l’auto, dove peraltro abbiamo tutte le nostre cose, tra cui cibo e acqua. La camminata in salita è molto più faticosa di quanto affrontato sino ad ora, sia perché la neve si fa sempre più abbondante e pesante sulla strada, sia perché la stanchezza fisica va inevitabilmente a sommarsi a quella mentale e alla speranza che qualcuno venga davvero a metterci in salvo. Infatti se fino a poche ore prima eravamo consapevoli di essere in una brutta situazione, adesso abbiamo realizzato con certezza di trovarci in una situazione potenzialmente drammatica. Del resto con queste temperature e condizioni, la tragedia è sempre in agguato.
Continuo a voltarmi, ma questa volta non più preoccupato degli animali selvatici presenti nella zona, quanto invece nella speranza che da un momento all’altro riesca a intravedere dei fari o dei lampeggianti spezzare quell’incessante bianco accecante che ha coperto ogni cosa intorno a noi. Tiro un sospiro di sollievo quando vedo che l’auto è rimasta dov’era, messa in sicurezza da quei puntelli improvvisati con le poche cose che siamo riusciti a recuperare prima che tutto venisse sommerso. Saliamo a bordo e ci rendiamo conto che l’auto è provvista di un sistema di richiesta di soccorso satellitare. Provo anche quello e vengo trasferito al comando dei Vigili del Fuoco locale che ancora una volta mi conferma che una squadra è partita da circa un’ora e che avremmo dovuto vederla da un momento all’altro. La concitazione del momento non ha purtroppo consentito una perfetta lucidità e nonostante tutto sono felice che con ciò che è accaduto, nessuna persona e nessuna cosa abbia subito il minimo danno. Scendo e apro il baule per sistemare alcune cose e in lontananza scorgo finalmente un Defender rosso. La cavalleria è arrivata. Non senza problemi e con le catene prontamente montate sulla vecchia ma efficace Land Rover veniamo portati a valle. Siamo salvi ed è tutto ciò che conta.
Si potrebbero spendere tante altre parole, ma reputo che in un momento come questo ne basti una sola e sia “grazie”. Grazie a tutti coloro che hanno contribuito per la nostra messa in sicurezza, persone che ogni giorno mettono a rischio la propria vita per aiutare, indipendentemente dai rischi. Grazie a Ford Italia per la disponibilità e la comprensione e grazie ai miei compagni per aver rappresentato la compagnia migliore con la quale poter rimanere isolati nel nulla e che a dispetto di tutti i film thriller e drammatici che passano su Netflix hanno dimostrato che se non si perde il controllo si può tornare a casa per raccontare la storia, proprio come ho deciso di fare con questo articolo un po’ particolare. Perdonatemi quindi se per il momento non abbiamo approfondito granché gli aspetti tecnici della Ford Explorer, ma ho sempre pensato che l’onestà intellettuale, la spontaneità e la sincerità siano alla base della mia professione e pertanto ho reputato che quest’avventura – spero irripetibile – valesse la pena di essere condivisa con tutti voi. Sul prossimo numero, parleremo di come l’Explorer sia stata in grado di conquistarmi nelle settimane successive, dopo che la squadra di recupero è riuscita a portarla in salvo.